Sulla scuola3. La scuola davanti ad impresa e mercato
di Giovanni Genovesi:
Più volte ho avuto occasione di intervenire su questa vexata quaestio.
So, per esperienza, che è un punto difficile a capire, ma in realtà la scuola e il mercato non c’entrano affatto l’una con l’altro.
Le finalità della scuola, che è il luogo “facitore di cultura” e diffusore sistematico di educazione, non cambiano con il mutare delle condizioni della produzione e del mercato che sarebbero solo elementi pervertitori del compito della scuola.
Non sarebbe, pertanto, affatto ‘produttivo’ che il compito della scuola dovesse cambiare sia con il cambiare dei modi del mercato né, tantomeno, col mutare del sistema politico, anche perché la scuola funziona solo come una delle quattro colonne portanti dell’unico sistema politico in cui può allignare una scuola degna di questo nome, quello democratico dello Stato di diritto.
Anche Aristotele pensava che la scuola dovesse cambiare secondo il regime di uno Stato: uno dei più grossi errori dello Stagirita fu proprio credere che i fini della scuola e, quindi, dell’educazione fossero un semplice strumento piegabile a tutte le stagioni politiche o dell’andazzo economico del mercato.
È indubbio che si può costringere la scuola ad essere un instrumentum regni. Certo che lo si può, visto che è sempre stato fatto, senza nessuna eccezione. E, infatti, non abbiamo mai avuto, in Italia e nel mondo una vera fonte di educazione che abbia il solo, esclusivo fine di indirizzare il soggetto a incamminarsi sulla strada per divenire padrone di se stesso.
Tutto quanto detto porta a concludere che la scuola non deve assolutamente essere contaminata dalla professionalizzazione, perché nessun mestiere deve essere insegnato nella scuola, pena prevaricarla dal suo compito.
L’apprendistato professionale prenderà corpo in luoghi ad hoc, extrascolastici e, comunque, terminato il corso di studi a livello superiore o universitario.
I nostri giovani, scolari o studenti, hanno bisogno di una scuola che li faccia sognare infondendo loro la speranza di immaginare e lavorare per un futuro che permetta loro di lavorare per realizzarli almeno in parte.
Studiare secondo una logica fordista per imparare un mestiere da impiegare in una catena di montaggio, sia meccanico o cibernetico è pazzesco.
Io sento più umano e culturalmente superiore quanto ci ha proposto, in maniera bella e incisiva, nel suo Diario di scuola V, la collega Alessandra Avanzini. Ecco ciò che scrive, cominciando dagli insegnanti:
“I nostri problemi, la nostra tristezza o anche la nostra giustissima frustrazione, tutto questo non motiva e non può giustificare la perdita di quello che è il nostro ruolo e la ragione del nostro esserci, regalare questa speranza.
Se non lo facciamo più, è bene perdere tutti i concorsi e non ripresentarsi nemmeno più alle convocazioni perché non sappiamo fare il nostro lavoro. Che non è fatto di date, fatti, competenze, abilità tecnica…
Non possiamo mai dimenticarci il senso profondo di quello che facciamo a scuola: costruire il contesto perché sia un luogo sereno, perché i ragazzi ogni mattina abbiano voglia di tornarci, un luogo in cui dare vita ad una relazione educativa, ciò che mette in comune quello che abbiamo in comune con i ragazzi, la nostra umanità.
Se il sapere riesce a permetterci questo, vuol dire che abbiamo saputo farne uno strumento educativo e ne abbiamo compreso il senso profondo, l’utilità per l’uomo; e sapremo allora anche regalarlo ai ragazzi come un dono prezioso.
Se non ci riesce è ornamento inutile, e sarebbe meglio dimenticare tutto.
Dobbiamo insomma far passare l’idea che è bello, e anche giusto, perdersi ad assaporare semplicemente ciò che si desidera, perdendo di vista ogni tanto gli ordini che ci vengono dati per inseguire un sogno; che non c’è niente di male ad essere incerti e pieni di dubbi; che anzi alla fine scegliere con rigida ottusità significa solo perdere di vista la dilatazione che l’immaginazione può offrire al reale; e infine che lo studio e la conoscenza hanno un primo fondamentale scopo, permetterci di divertirci e di stare bene”.
È questa la scuola che voglio e per la quale mi batterò e mi impegnerò con tutte le mie forze intellettuali, convinto che con essa riusciremo ad avere una scuola che educa, sempre al passo con i tempi e tale da insegnarci, come diceva Montaigne, l’arte di vivere.